Meglio il prosciutto di Parma o San Daniele? Il confronto
Il prosciutto crudo (dal latino “per suctum“, ossia “completamente asciugato“) è il fiore all’occhiello della gastronomia mediterranea. I boschi di quercia e faggio tipici delle regioni collinari di Italia, Spagna ed ex Jugoslavia rappresentano lo scenario perfetto per l’allevamento suino allo stato brado, dove i maiali possono pascolare in libertà, nutrirsi secondo natura con sole ghiande e faggiole, per poi sviluppare una massa grassa che, durante la stagionatura, si trasforma in pregiato acido oleico: un grasso insaturo (il cosiddetto “colesterolo buono“) che non solo assorbe il sale e restituisce un prodotto finale dal sapore equilibrato, ma è un nutriente ad alta digeribilità che consente, quando il prosciutto è stagionato a regola d’arte e non possiede conservanti, un consumo perfettamente in linea con il regime dietetico ipocalorico e le esigenze alimentari di sportivi, anziani e bambini. Il prosciutto crudo (ripeto: crudo) ottenuto secondo il rigido disciplinare Dop è tutta salute! Rispetto ad altri salumi ed insaccati, se ne possono consumare anche quantità poco morigerate. Ed anche il contenuto di sodio, dovuto al sale utilizzato per la stagionatura, da sempre tallone d’Achille di questa eccellenza alimentare, nel corso degli anni è andato progressivamente riducendosi. Il discorso naturalmente cambia se si scelgono prodotti economici o “in offerta” (ad esempio il mitico “prosciutto di montagna” del supermercato o della salumeria, solitamente di provenienza estera), ottenuti spesso da carni scadenti e infarcite di additivi; per non parlare poi dell’alimento preferito dai bambini e dalle mamme, quel prosciutto cotto rosa e senza troppo grasso visibile che in realtà è un monumento alla cattiva alimentazione: non solo è ottenuto da cosce di suino scartate dalle linee produttive del prosciutto crudo, ma è anche un concentrato di nitriti, nitrati, antiossidanti ed altre schifezze, tra cui, nei prodotti peggiori, persino glutine, caseinati e polifosfati. Fateci caso: avete mai visto servire prosciutto cotto in un ristorante, di qualsiasi categoria?
In Italia i grandi protagonisti della disfida del prosciutto crudo sono due: il Parma ed il San Daniele. Ognuno ha i suoi estimatori e i suoi detrattori, ma, nel consumatore comune, la confusione tra questi due capolavori della norcineria è elevatissima. Negli ultimi anni si sono affacciati sul mercato altre produzioni che hanno ottenuto il marchio Dop: il prosciutto toscano (volontariamente sapido), quello di Modena o di Cuneo, il Carpegna, il Berico-Euganeo ed il Jambon de Bosses della Valle d’Aosta. Tuttavia rimangono prodotti di nicchia difficilmente rinvenibili fuori dal territorio d’origine, destinati alla casta dei gastronomi e buongustai. E allora, meglio il prosciutto di Parma o di San Daniele? Per rispondere a questa domanda, è necessario confrontare il ciclo produttivo e le caratteristiche organolettiche di entrambi. Tutti e due sono ottenuti da cosce destre di suini rigorosamente allevati in dieci regioni italiane del centro-nord (Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo e Lazio) ed utilizzano il solo sale marino come agente conservante. Ma le somiglianze finiscono qui: il San Daniele viene trattato esclusivamente con sale a secco, mentre il Parma ammette anche quello umido per la cotenna. Per quel che riguarda la stagionatura, il San Daniele può essere immesso in commercio a partire dal tredicesimo mese di stagionatura, mentre il Parma ne prevede quattordici. Negli ultimi anni si è assistito ad una corsa al rilancio da parte dei due consorzi per prolungare il limite minimo: di ciò ne beneficerà esclusivamente il consumatore, dal momento che più il prosciutto stagiona e più diventa saporito, dolce, nutriente e digeribile. Diverso anche l’areale di produzione: se il consorzio di Parma ammette la lavorazione in tutta la provincia, dall’Appennino alla Pianura Padana (3.447 kmq per poco più di 100 produttori), il San Daniele può essere prodotto e stagionato solo nel piccolo comune friulano (34 kmq per appena 31 produttori). Ma la differenza più evidente è nella forma del prodotto finito: il San Daniele conserva il piedino e somiglia vagamente ad una chitarra dall’aspetto slanciato; più “ciccioso” invece il Parma, senza zampino e con la caratteristica forma a pera o a coscia di pollo.
Ok, ma qual è il più buono? Sfatiamo subito un mito: nonostante da anni le massive campagne pubblicitarie rassicurano che “quello dolce è il crudo di Parma“, in verità il prosciutto emiliano, per via del sale umido, è solitamente più salato del fratello friulano (anche se non raggiunge mai i livelli di sapidità del prosciutto toscano, destinato ad accompagnare il locale pane sciocco). Un San Daniele a lunga stagionatura (superiore ai 18 mesi) si presenta molto più armonico, con le parti magre perfettamente asciutte ed il grasso “sudato” che ha completamente assorbito il sale. Un’esperienza degustativa da Youporn. Diverso è invece il discorso per i prosciutti immessi in commercio al raggiungimento del limite minimo di stagionatura, spesso destinati alla grande distribuzione: qui purtroppo una spiccata sapidità è riscontabile in entrambi i prosciutti, specie nei tagli più centrali, dove la fetta può risultare (specie il Parma) molliccia e simile alla carne cruda. Già i tagli: pochi operatori sono purtroppo in grado di comprendere, eccetto alcune premiate gastronomie del Nord, che il prosciutto crudo va trattato come la carne bovina: ogni parte ha caratteristiche diverse, esattamente come una lombata, un girello o un reale di manzo. Nel prosciutto distinguiamo la punta, ovvero la parte anteriore dalla quale si comincia ad affettare, caratterizzata da fettine asciutte, ogivali e leggermente sapide. Accanto a lei, la parte più pregiata, quella “sporgente” situata in corrispondenza del femore, chiamata “fiocco” o “sott’osso“, dalla quale a Parma si ottiene il culatello: qui la salinità e ridotta al minimo, e la giusta dose di grasso e marezzatura conferiscono alla fetta un sapore intenso di carne stagionata con forti retrogusti di ghianda. Il cuore è la parte centrale, quella con le fette più grandi ed umide, che possono risultare salate se la stagionatura non è stata particolarmente lunga; da questa posizione, man mano che si procede verso il piede, la carne diventa più fibrosa, ma più dolce: siamo arrivati al gambetto, che in un prosciutto pregiato è tutt’altro che una parte di scarto da destinare a torte salate o al ripieno dei tortellini. L’acquisto del prosciutto al taglio presso il rivenditore di fiducia non può rivelarsi una roulette russa, con il rischio che il salumiere vi affetti il taglio a voi meno gradito perché la coscia si trova lì in quel momento. Così come un macellaio non vi servirà mai una bistecca per cucinare il bollito, allo stesso modo una gastronomia che si rispetti dovrebbe presezionare i prosciutti (e possibilmente non appenderli vicino al calore dei faretti) e rendere sempre disponibile alla clientela il taglio desiderato.
Per concludere: meglio il prosciutto di Parma o San Daniele? Personalmente ho una leggera preferenza per il San Daniele: il suo disciplinare più rigido regala un prosciutto eccellente, asciutto, gustoso e mai troppo salato. In ogni caso, nei piccoli paesini dell’Appennino Parmense, dove la produzione è ancora lontana dalle logiche capitalistiche industriali, è ancora possibile trovare dei Parma di tutto rispetto. Lo stesso discorso vale per qualsiasi tipo di prosciutto: quello del piccolo produttore locale aderente al consorzio, che stagiona un numero limitatissimo di cosce e non esporta al di fuori del suo areale, sarà sempre superiore a quello del grande marchio industriale venduto al supermercato. Infine, una piccola raccomandazione: a meno che non dobbiate farlo mangiare ai bambini, chiedete sempre di farvelo tagliare un po’ più spesso. In Italia purtroppo predomina la cultura della fettina sottile come l’ostia, troppo debole per far sprigionare al prosciutto tutto il suo bouquet di odori e sapori. Nella sorella Spagna, dove il jamon è religione di stato ed il Pata Negra è (con buona pace delle eccellenze nostrane, nonostante costi quanto l’oro al grammo) universalmente considerato il miglior prosciutto al mondo, l’affettatrice non esiste. Si taglia al coltello, a mano. Ed è in questo aspetto che l’Italia deve allinearsi per non subire la supremazia iberica e dimostrare, come già accaduto in enologia contro gli eterni rivali francesi, che la biodiversità del territorio può convertirsi in eccellenze per tutti i gusti da rendere superfluo e limitativo l’annoso dilemma se sia meglio il prosciutto di Parma o San Daniele.
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