Guida allo street food palermitano
Ma come? Un’altra guida allo street food palermitano? Ma se il web ne è già saturo? Ok, è un argomento un tantino inflazionato, ma le guide e gli articoli di blog che si trovano in rete sono un tantino dispersivi: propongono una sfilza di indirizzi da visitare nei più disparati quartieri della città (anche quelli fuori dai circuiti turistici), senza mai esprimere una preferenza su dove convogliare i lettori e senza fornire informazioni dettagliate. Vorrei provare a colmare questo vuoto: non ho la pretesa di risultare il depositario della verità assoluta in materia, ma sono appena tornato dal capoluogo siciliano e sono fresco di esperienze e giudizi. Parto subito da un’opinione impopolare: Palermo non mi è piaciuta. Sì, l’architettura e le testimonianze arabo-normanne sono incantevoli, così come il clima e la gastronomia. Ma, per le mie idee borealiste (elegante sinonimo di “settentrionaliste“), la città è troppo caotica e degradata, più simile a una metropoli nordafricana che ad un’azzimata città europea: traffico disordinato, incroci a croce uncinata (soprattutto per immettersi in autostrada, sempre che possiamo considerarla tale), motoveicoli fetidi e rumorosi, musica neomelodica, edifici in macerie come se fossero stati feriti da un recente terremoto, sporcizia, immondizia e attività commerciali ambulanti in condizioni igieniche da terzo mondo. Tuttavia, se si è disposti a tollerare una preparazione non proprio asettica, il cibo da strada palermitano offre un’esperienza degustativa unica nel suo genere.
Cominciamo dal re indiscusso dello street food palermitano: Sua Maestà, il pani ca’meusa, ovvero il panino con la milza. L’ultimo figlio di una cucina poverissima, che destinava alle fasce di popolazione più povera le frattaglie e gli scarti di macelleria. Davanti a un panino con la milza, c’è ben poco da fare gli schifettosi: lo so, ingerire un organo interno non proprio convenzionale può fare un po’d’impressione, ma il sapore della milza risulta molto più gradevole di quello ben più ferroso del fegato o del cuore bovino. Anche se viene cotta nello strutto e contribuisce a rendere il prodotto finale ipercalorico, unto e bisunto. Se fino a qualche anno fa il pani ca’meusa era confinato al consumo nei quartieri più malfamati, dopo gli endorsements televisivi degli chef Rubio e Barbieri è diventato una delle specialità più richieste dai turisti. In città sono sorti esercizi fighetti e moderni che lo preparano a regola d’arte, ma il miglior pani ca’meusa resta sempre quello che si mangia a Porta Carbone, di fronte alla rada della Cala: il panino è abbondante, con tenere fettine di milza e polmone impreziosite da qualche pezzetto di cartilagine di trachea (in siciliano “u scannaruzzato“) a conferire una nota di croccantezza. La versione “maritata“, con aggiunta di caciocavallo ragusano a listarelle, è preferibile a quella “schietta“, ovvero con succo di limone: i sapori diventano più intensi, ma più bilanciati; al contrario, il limone conferisce un eccesso di acidità che può diventare fastidioso al palato. Doveroso l’accompagnamento con una birra fredda e leggera, per sgrassare il palato. Il prezzo? Solo 4,50 euro per un panino nella tipica “vastidda” con semi di sesamo (che qui chiamano anche focaccia) ed una birra 33cl. Un gradino più sotto la creatura di “Nnì Franco U’Vastiddaro” in Via Vittorio Emanuele, altro tempio dello street food palermitano: anche qui siamo davanti a un signor panino, ma il polmone predomina sulla milza e le dimensioni non sono sufficienti a sfamare un avventore di discreto appetito. Peccato.
Passando al fritto, dove l’arancino (o arancina, per i puristi) regna incontrastato, le panelle gli fanno da damigelle ed i crocchè (realizzati con sole patate, pepe e mentuccia) da paggetti, una piacevole sorpresa si è rivelata la startup “Passami u’coppu“, situata a ridosso del trafficato incrocio tra Via Roma e Via Vittorio Emanuele: mai mi è capitato di assaggiare, neanche dai maestri friggitori napoletani, un fritto così asciutto e croccante, anche 20 minuti dopo essere stato preparato e imbustato. Se le panelle si sono rivelate un po’troppo irrorate d’olio, l’arancino (rigorosamente consumato nella versione “accarne“, ovvero al ragù, dal momento che aborro la besciamella presente nella versione “abburro“, cioè quella bianca) è semplicemente spaziale: croccante, ricco, saporito e soprattutto digeribile. Sintomo di un olio pulito e non riciclato. Lo sfincione migliore è indubbiamente quello della Focacceria San Francesco, uno degli esercizi più antichi della città, diventato celebre per la sua lotta al racket: la consistenza è quella giusta, con l’impasto spugnoso come tradizione comanda e la cipolla che non uccide gli altri sapori. Meglio lasciar perdere invece i fritti, un po’troppo pesanti ed indigesti, talvolta riciclati o riscaldati. Per gli stomaci più forti, soprattutto se a trazione carnivora, risulta impossibile non farsi sedurre dal fumo profumato delle braci che arrostiscono le stigghiòle, intestini di agnello avvolti intorno ad un cipollotto oblungo. Nonostante la semplicità del prodotto (non pensate che state assaggiando budella ovine!), a dissuadere dall’assaggio è il lerciume delle griglie ambulanti su cui vengono rosolate, spesso situate in prossimità di un ponte autostradale o negli angoli più zozzi dei mercati storici cittadini. Un buon compromesso per pulizia (ma non aspettatevi una linda cucina stellata) è Jolly alla Vucciria, che offre anche alcuni tavolini all’aperto per il consumo in loco. Una sola stigghiola (meglio se mangiata in purezza come una bistecca, senza limone) non sazia a sufficienza, pertanto spuntino, aperitivo e (perchè no) colazione sono i pasti giusti per renderla protagonista.
Il mercato di Ballarò è il sancta sanctorum dello street food palermitano, ma se avete paura di contrarre un’infezione o un’intossicazione alimentare, i colorati vicoli di questo souk in terra italica non sono il posto giusto per assaggiare qualcosa: qui troverete l’immancabile pani ca’meusa, un friggitore che abbania i clienti con urla colorite mentre assembla e frigge arancini in una pentola sudicia e consunta, uno stigghiolaro che griglia tra i miasmi di immondizia, ma anche chi serve polpo lesso, insalate di mare, ricotte al forno e la laida frittola, ovvero ciccioli di maiale fritti e fatti riposare in un paniere di vimini. Uno stomaco rivestito di kevlar è condizione necessaria e sufficiente per affrontare un viaggio gastronomico a Ballarò (così come un naso bionico per resistere alle puzze). Chiusura doverosa sulla pasticceria, che a Palermo trova una delle sue massime espressioni: tra cannoli, cassata, paste di mandorla, frutta martorana e torta Setteveli c’è solo l’imbarazzo della scelta. Per andare a colpo sicuro, la Pasticceria Costa in via Maqueda (e sede storica nella periferica Via D’Annunzio) è l’indirizzo giusto: la cialda dei cannoli, rigorosamente farciti al momento, crocca che è una meraviglia, mentre la Setteveli, manna per tutti i cultori del cioccolato, rispetta i 7 canonici strati come si conviene (con autentico biscotto croccante) e non è così stucchevolmente zuccherosa come quella di altre pasticcerie. Infine, un’ultima raccomandazione: non vi aspettate di poter fare a Palermo colazione con brioche con tuppo e granita cremosa. E’ una specialità della Sicilia Orientale, soprattutto della fascia costiera che va da Messina a Siracusa. Potreste incappare in una brutta delusione. Avrete comunque tanto da assaggiare, e, dopo aver letto questa guida allo street food palermitano, saprete già dove correre per imbattervi immediatamente nelle eccellenze del settore.
You must be logged in to post a comment.