Quel viaggio in Calabria a base di carne bollita
Ci sono episodi, nella vita e nei viaggi di un epicureo cultore del bello e del buono, che si ricordano più nitidamente di uno scenario da cartolina, di un’opera d’arte da sindrome di Stendhal o di una tenera e fugace amicizia con una fanciulla del posto. Senza troppi giri di parole: accade quando mangi male. Può succedere perché non riesci ad entrare in sintonia con le tradizioni culinarie di un luogo, perché gli hotel che hai scelto (o dove ti ha condotto un tour guidato) non prestano particolare cura alle materie prime e alla preparazione, oppure sei semplicemente ospite a casa della famiglia di un amico o di una fidanzata che ha abitudini alimentari totalmente estranee alle tue. E’ quanto mi è capitato nel 2002, durante una vacanza in Calabria a casa della quasi-fidanzata dell’epoca. Avevo 20 anni, e fino ad allora avevo evitato come la morte di pranzare o essere ospitato a casa altrui. Soffrivo (e ne soffro ancora, anche se crescita e lavoro hanno smussato la vena integralista) di selective eating, ovvero gradivo una percentuale bassissima di alimenti. E il peggio è che preferivo quelli costosi: carne, pesce, salumi stagionati e dolci al cioccolato. No a verdure, legumi, timballi, formaggi (che oggi invece adoro), riso, salse, dolci alla frutta e piatti troppo pieni di ingredienti (per fortuna adesso bollati e definiti “mappazzoni“) come quelli della cucina napoletana tradizionale. Se le tasche dei miei jeans di allora potessero parlare, racconterebbero di essere state depositarie di gattò di patate, torte rustiche, casatielli, lasagne e crostate che puntualmente fingevo di apprezzare, per poi nascondere negli anfratti più insospettabili del mio vestiario e abbandonare, fingendo di dover andare in bagno, in una pattumiera o direttamente nel gabinetto.
Non potevo più limitarmi, così accettai la sua offerta di trascorrere una settimana nella sua casa al mare di Santa Maria del Cedro. Il tutto in compagnia della famiglia: padre, madre, e soprattutto il fratellino rompicoglioni di appena 4 anni. A Baia Felice, a casa dei miei, mi annoiavo da matti. Avrei visto una regione mai visitata prima e soprattutto sarei comunque stato per una settimana in sua compagnia, seppur costretti a dormire in camere separate. Avevamo un rapporto trasparente, pertanto le raccontai, senza soggezioni di sorta, il mio cruccio alimentare. Mi disse di non preoccuparmi: avrebbe istruito lei i genitori riguardo le mie preferenze culinarie, e avrebbe fatto di tutto per non mettermi a disagio. Tuttavia, memore delle tante fregature subite in vita, non riuscivo a fidarmi. E facevo bene! Raggiunsi Santa Maria del Cedro di sabato pomeriggio, e, per tributarmi un’accoglienza tranquilla, la prima sera di vacanza andammo a mangiare una pizza nel centro di una Scalea non ancora invasa, in luglio, dal popolaccio napoletano. Scelsi la mia solita marinara (oggi nessuno deve toccarmi la margherita, meglio se con mozzarella di bufala) e festeggiai per aver superato indenne la prima serata. Il giorno dopo cominciarono le difficoltà: dopo una mattinata a mare, sua madre, la Marchesa, cucinò a pranzo un’insalata di pasta sui generis: farfalle che galleggiavano in un litro d’olio, una squintalata di origano e condimento vegetariano. Esecuzione pessima, ma ancora nei limiti del commestibile. Un altro pasto era stato superato. Ormai, a differenza dei carcerati, contavo i pranzi e le cene mancanti, più che i giorni.
I problemi insormontabili si verificarono in serata. Dopo un bel pomeriggio sul lungomare di Diamante, dove fui costretto ad offrire il gelato a tutta la famiglia per sfamarmi con un cono grande (se l’avesse offerto suo padre avrebbe preso per tutti quello piccolo) ed il fratellino mi si attaccò addosso come una zecca, tornammo a Santa Maria e, mentre la Marchesa cominciò a limarsi le unghie sul terrazzino, suo padre si cimentò nel cucinare hamburger con patatine fritte. Lo osservai nel prendere una pentola, riempirla d’acqua ed immergervi all’interno gli hamburger, con tutta la pellicola. – Ma questo davvero vuole bollirli? – pensai, impietrito e stupefatto, desiderando di trovarmi in una candid camera. – Sì, li lessa, li sta cucinando lessi! – Il calore dell’acqua sbriciolò la carne macinata, ammassandola in una pappetta insieme alla pellicola non asportata. Li servì senza condimento: né olio, né sale, né pepe. Il contorno di patate fritte? Una massa amorfa liquefatta nell’olio. Purè di patatine fritte: una specialità della casa o cosa? Notarono che giochicchiavo col cibo senza appetito e mi chiesero il perché. A bruciapelo, gli risposi che le patate non si potevano proprio mangiare. Nella casa di vacanza di Santa Maria del Cedro piombò il silenzio, con gli sguardi di disapprovazione della famiglia reale che parlavano da soli. Dopo qualche secondo, mi resi conto che l’assoluta mancanza di diplomazia aveva generato una figura di merda leggendaria. Per cinque minuti, nessuno proferì parola. Ma compresi che avrei dovuto fare i bagagli prima di subito. Non ricordo bene come rimediai: probabilmente corressi il tiro spiegando di aver messo poco sale. Ed in effetti, per rendere più appetibile il boccone, ne aggiunsi una quantità che avrebbe ucciso un nefropatico. Credettero alla mia versione, o almeno finsero di farlo per quieto vivere. E mi consolai pensando che magari erano abituati a mangiare solo gli hamburger così…
Il giorno dopo, ci arrampicammo fin su Marcellina per comprare delle salsicce artigianali in una macelleria paesana di cui i suoi genitori cantavano le lodi: un bugigattolo di pochi metri quadrati, senza clienti, né carni esposte in vetrina, gestita da un’anziana, nerboruta contadinella delle gole del Pollino. Immaginai tutto il sapore genuino delle salsicce calabresi, confezionate con le parti più nobili del maiale e condite con abbondante peperoncino piccante: una squisitezza, se arrostite sui carboni o una semplice bistecchiera elettrica. Anche cotte in padella, volendo. Ma suo padre, contrariamente a ogni mia aspettativa, ebbe il coraggio di lessare anche quelle, lasciandomi sognare profumatissime braci grondanti di succulente bistecche di Chianina…Lo stesso rito si ripeté con gli economicissimi busti di pollo (la parte più povera, quella che rifiutano anche i cani di strada) comprati in offerta al Mercatissimo di Scalea. Il povero diavolo lì annegò nell’acqua come un bambino che non sa nuotare, li lasciò sul fuoco fino quasi a consumarli, li sfilacciò e li servì in un’insalata rielaborata alla moda della loro famiglia, con abbondante olio motore ed un’intera testa d’aglio. Per questo le puzzava sempre il fiato: quel fottuto aglio lo mettevano persino nella lattuga e nella pasta della pizza! La sera prima di andare via arrivarono gli spiedini, ma non mi aspettavo nulla di diverso. Specie dopo essere tornati da quel supermercato dove il padre obbligava la figliola a rovistare tra tutte le marche fino a trovare quella supermegaultraeconomica. Come il provolone Gurro e il tonno delle Seychelles, pescato in acque radioattive come il pangasio del Mekong. Marchi indelebili, di cui porterò sempre un geloso ricordo. La sera in cui tornai a Napoli, persino la pizza di Raffaele o’zuzzus mi sembrò una creazione d’alta cucina. Nei mesi successivi, sperimentai crostini con banane secche, spaghetti con carote, pepe e aranciata Fanta ed altre invenzioni metafisiche. Una cucina d’avanguardia che meritava di essere coltivata e valorizzata in un ristorante. Ristorante di cui, goliardicamente, ne composi il menù. E che non auguro di testare a nessun innamorato ospite in casa dei suoceri. Pena un matrimonio infelice, se non invalidato dal coraggio di mollare tutto…
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